Intervista ad Attilio Bolzoni

Cosa significa fare il giornalista oggi, tra social network e pandemia

Intervista a Attilio Bolzoni

Buongiorno Attilio! Grazie per aver accettato la nostra proposta di intervista! Si può presentare brevemente a chi non la conosce ancora (pochi!) e raccontarci del suo percorso professionale?

Sono un giornalista, vengo dal centro della Sicilia. Ho cominciato come cronista a Palermo alla fine degli anni ’70 al quotidiano L’Ora, che era la voce dell’“altra Sicilia”, un piccolo grande giornale al tempo famoso per le sue battaglie contro il potere. Dopo qualche anno, nel 1981, sono diventato il corrispondente dalla Sicilia di Repubblica e ho seguito prima la grande guerra di mafia e poi il maxi processo a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone.
Sono andato un po’ in giro per il Sud a fare inchieste sino all’estate del 1992. Con le stragi di Capaci e di via D’Amelio sono tornato “a tempo pieno” a Palermo. Solo intorno al 2000 sono tornato a fare l’inviato nel Mezzogiorno e poi in Albania durante la guerra del Kosovo, a Kabul dopo l’11 settembre, a Bagdad dopo la caduta di Saddam. Nel 2004 ho deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Roma. E ho continuato a scrivere di mafie, di Sicilia, di Calabria e di tutto ciò che riguarda l’Italia in fondo all’Italia.

Dopo 41 anni, da Repubblica a Domani: perché questa scelta?

La mia lunga avventura a Repubblica è stata felicissima. Sono stato molto fortuntato, un giornale diverso dagli altri e con due grandi direttori come Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro. Poi, nel giro di pochissimi anni, le cose sono cambiate velocemente, troppo per me. Dopo una breve esperienza con Mario Calabresi, che ho sempre considerato – oltre che un uomo affettuoso – anche “uno di noi”, di Repubblica intendo, la situazione dentro il giornale si è modificata radicalmente. Ho sentito semplicemente la necessità di cambiare, di trovare un giornale più “accogliente” alla mie sensibilità professionali. Il Domani non pubblica solo notizie, ma quelle notizie riesce a proiettarle in un contesto intorno al quale il lettore può riflettere, ragionare. Offre un “sapere” in più. A Repubblica e a tutti i bravissimi colleghi che ci lavorano auguro di ritrovare una rotta.

Nel corso della sua carriera si è occupato e si occupa di mafia, inchieste e reportage sul Meridione. Quanto influisce oggi il web (e i social network!) nella sua attività di cronista?

Naturalmente moltissimo. Ma il territorio vince sempre. Voglio fare un esempio. Una quindicina di anni fa il giornale mi chiese di fare, con calma, un’inchiesta sul contrabbando di sigarette. Stava nascendo in Puglia una nuova mafia, la Sacra Corona Unita, molti boss trafficavano in droga, in armi e in sigarette con le organizzazioni criminali dell’Est europeo.

Sul web ho raccolto quintali di informazioni, ho archiviato tutto, ho letto, ho studiato. E ho pensato: con tutto quello che ho raccolto adesso posso scrivere due o tre libri. Poi sono partito per la Puglia e per il Montenegro. Alla fine, per la mia inchiesta, non ho utilizzato una sola riga di quelle informazioni raccolte precedentemente, la realtà era molto più ricca e intrigante rispetto alle “fredde” notizie che avevo archiviato e trovato in rete.

Il territorio è il luogo migliore per fare il giornalista. E il territorio racconta sempre tutto. Basta saperlo (e volerlo) ascoltare.

Da un anno a questa parte il Covid-19 ha stravolto il mondo, anche quello dei media, generando un incremento dell’informazione online. Lo ritiene un bene? La pandemia ha cambiato il suo modo di comunicare?

Penso di avere risposto a queste domande appena un attimo fa. Per quanto mi riguarda, per come sono abituato a fare il giornalista, in quest’ultimo anno la mia attività professionale è stata molto frenata. Non ho avuto la libertà di viaggiare, di andare sui luoghi, di incontrare le persone e le fonti che avrei dovuto e voluto incontrare per scrivere i mie articoli. Certe cose non si possono “seguire” al telefono o da “remoto”, richiedono un po’ più di riservatezza, un contatto ravvicinato.

È cambiato sì il mio modo di comunicare, nel senso che sto aspettando che tutto finisca per potere continuare a fare il giornalista come lo so fare io: dal vivo.

Quali sono i momenti nel suo lavoro che le piacciono di più?

Tutti: dalla raccolta delle informazioni, al controllo delle stesse, il riscontro incrociato su ciò che ho ricevuto dalle fonti e dalla documentazione acquisita. E poi c’è la parte finale, la scrittura. Forse, a volte, è la parte più faticosa soprattutto se le storie sono particolarmente intrecciate. Ma anche quella più creativa.

Un consiglio ai giovani che sognano di fare il mestiere di giornalista…

Uno solo: non accontentarsi mai delle versioni ufficiali. Mai. Le informazioni, in mano al potere, non sono mai sicure.

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